Severo saluta l’amatissimo fratello Desiderio.
In verità, fratello mio carissimo, avevo deciso di scrivere per me questo libretto sulla Vita di San Martino e di conservare il manoscritto originale tra le pareti domestiche della mia casa, poiché, essendo assai timido per natura, volevo evitare i giudizi degli uomini, nel timore (e penso che la cosa accadrà) che il mio stile alquanto trasandato non piacesse ai lettori e io fossi giudicato assai degno di biasimo da parte di tutti. Ho avuto, infatti, la presunzione di appropriarmi ingiustamente di un argomento che meritava di essere riservato a scrittori di riconosciuto talento. Tuttavia non ho potuto dire di no alle tue reiterate richieste: potevo mai rifiutare qualcosa alla tua amicizia anche a scapito della mia reputazione?
Nondimeno se ti mando questo libretto è perché nutro ferma fiducia che non lo mostrerai mai a nessuno, come del resto hai promesso. Tuttavia temo che tu sarai per esso la porta di uscita e che, una volta uscito in pubblico, esso non potrà più essere richiamato.
Se ciò dovesse accadere e se vedrai che esso è letto da alcuni, con benevola indulgenza chiederai ai lettori questo, che valutino l’argomento piuttosto che le parole, e sopportino con animo sereno, se questo stile mediocre ferirà le loro orecchie, poiché il regno di Dio dipende non dalle capacità dialettiche, ma dalla fede.
Ricordino anche che la salvezza è stata predicata al mondo non da oratori, (cosa che il Signore avrebbe potuto fare, se fosse stato utile), ma da pescatori.
Io, infatti, quando inizialmente mi sono deciso a scrivere, poiché ritenevo che fosse un delitto lasciare nell’ombra le virtù di un uomo così grande, presi la decisione di non arrossire per le sgrammaticature: mai, infatti, avevo avuto grandi conoscenze retoriche e se qualcosa di questi studi un tempo forse avevo conosciuto in maniera superficiale, tutto ciò avevo perduto per la perdita d’abitudine da così gran tempo.
Tuttavia, messa da parte una così pietosa difesa, se ti sembrerà opportuno, si pubblichi il libretto, dopo aver tolto il nome dell’autore. Cancella pertanto il mio nome dal titolo iniziale, in modo che la pagina, diventata muta del mio nome, indichi l’argomento, che è la cosa più importante, e non parli dell’autore.
Molti uomini, inutilmente dediti al culto della gloria terrena, hanno ritenuto di dare memoria perenne al loro nome celebrando nei loro scritti la vita di uomini illustri, la qual cosa in ogni caso non procurava loro quella immortalità in cui speravano, ma tuttavia ottenevano un tantino della gloria sperata e, sebbene inutilmente, riuscivano a perpetuare la loro memoria e mediante gli esempi dei grandi uomini proposti, suscitavano nei lettori un vivo desiderio di emulazione. Ma ogni loro fatica non ha avuto nessun rapporto con l'eternità della vita felice.
A che cosa è servita loro la gloria dei loro scritti, destinata a sparire col mondo? E quale profitto la posterità ha tratto dopo aver letto dei combattimenti di Ettore o delle discussioni filosofiche di Socrate? Quanto a queste persone, non solo è stupido imitarle, ma ancora è follia non combatterle risolutamente. Poiché essi hanno giudicato la vita umana soltanto dai gesti presenti, hanno affidato le loro speranze alle favole e le loro anime ai sepolcri: essi hanno creduto di doversi perpetuare nella memoria degli uomini, mentre invece è compito dell'uomo cercare la vita eterna piuttosto che una memoria eterna, non mediante la scrittura, i combattimenti e la filosofia, ma attraverso una vita devota, santa e religiosa.
In verità questo errore degli uomini, propagato dalla letteratura, si è talmente diffuso che ha trovato molti emuli o della vana filosofia o del folle eroismo.
Pertanto mi pare di essere sul punto di compiere un’opera di un certo valore se scriverò la vita di un uomo veramente santo che servirà presto di esempio agli altri. In tal modo i lettori saranno sicuramente incitati alla vera saggezza, alla milizia celeste, alla virtù divina. Nel fare ciò, penso anche al mio interesse personale, al punto da poter sperare non nel vano ricordo degli uomini, ma nella ricompensa eterna di Dio. Infatti, sebbene io stesso non sono vissuto in modo tale da essere d’esempio agli altri, tuttavia avrò lavorato per fare conoscere un uomo che merita di essere imitato.
Dunque, comincerò a scrivere la Vita di San Martino. Dirò come si è comportato sia prima dell’elezione all’episcopato, sia durante il suo ministero episcopale, sebbene non sono riuscito a conoscere tutto: i fatti, di cui è stato il solo testimone, li si ignora del tutto, perché egli non ricercava la lode degli uomini, al punto che, se avesse potuto, avrebbe voluto nascondere tutte le sue virtù.
Devo dire che ho omesso anche parecchi fatti di cui ero a conoscenza sia perché ho creduto sufficiente ricordare quelli più importanti, sia perché, contemporaneamente, dovevo risparmiare i lettori, affinché un eccesso di abbondanza non generasse in essi disgusto.
Infine, scongiuro coloro che leggeranno di prestare fede alle mie parole, di credere che non ho scritto niente che non fosse certo ed accertato: diversamente avrei preferito tacere piuttosto che dire cose false.
Martino era originario di Sabaria, città della Pannonia, ma fu allevato in Italia, a Ticinum (Pavia). I suoi genitori erano di rango onorabile secondo il mondo, ma erano pagani.
Inizialmente suo padre era stato un semplice soldato, in seguito era diventato tribuno militare. In gioventù anche Martino seguì la carriera militare e servì nella cavalleria della guardia imperiale, dapprima sotto l'imperatore Costanzo, poi sotto il Cesare Giuliano. Tuttavia questa scelta non fu spontanea, e infatti, fin dall’adolescenza era apparso come un ragazzo pio e religioso, predestinato piuttosto al servizio divino.
All'età di dieci anni, malgrado i suoi genitori fossero contrari, si rifugiò in una chiesa e domandò di essere ammesso come catecumeno.
Presto, in modo straordinario, si dedicò interamente alle opere di Dio e a dodici anni desiderò ritirarsi in un eremo: avrebbe soddisfatto queste sue aspirazioni, se non glielo avesse impedito la fragilità dell’età. Tuttavia in cuor suo pensava costantemente o alle celle del monastero o alla chiesa, ed egli meditava fin da ragazzo ciò che avrebbe realizzato più tardi dedicandosi interamente a Dio.
Ma, nel frattempo, un editto imperiale ordinò che fossero arruolati nell’esercito i figli dei veterani, ed egli fu consegnato da suo padre che era ostile a quelle azioni di cui abbiamo parlato prima e che dovevano assicurargli la felicità: a quindici anni, dunque, preso a viva forza, fu incatenato e costretto al giuramento militare. In servizio, si accontentò di prendere con sé un solo schiavo, che tuttavia, per un capovolgimento dei ruoli, egli, nonostante fosse il padrone, serviva al punto da togliergli spesso le scarpe e pulirgliele, mangiare insieme a lui e servirlo a tavola.
Prima di ricevere il battesimo per circa tre anni Martino fu sotto le armi, ma non si fece contaminare dai vizi in cui abitualmente è invischiato questo genere di uomini.
Nei confronti dei suoi commilitoni grande era la sua benevolenza e ammirevole il suo affetto; quanto alla sua pazienza ed alla sua umiltà, esse erano a dir poco sovrumane. Appare poi superfluo lodare la sobrietà che lo caratterizzava: fin da allora, lo avresti detto non un soldato, ma un monaco. Per tutti questi motivi, aveva legato a sé tutti i suoi compagni, i quali nutrivano per lui un affetto meraviglioso e una venerazione incredibile.
E tuttavia, pur non essendo stato rigenerato ancora in Cristo, si comportava come un candidato al battesimo mediante le buone opere che compiva: assistere i malati, portare soccorso agli infelici, nutrire i bisognosi, vestire gli ignudi, e del suo soldo militare non riservare per sé che il necessario per il pane quotidiano. Già da allora, poiché non era sordo agli insegnamenti del vangelo, non pensava all'indomani.
Un giorno, nel mezzo di un inverno più rigido del solito, al punto che numerose persone morivano a motivo dei rigori del freddo, mentre non aveva addosso niente altro che le armi e il semplice mantello militare, sulla porta della città di Amiens, si imbatté in un povero nudo: l'infelice pregava i passanti di avere pietà di lui, ma tutti passavano oltre. Quell’uomo di Dio, vedendo che gli altri non erano mossi a compassione, comprese che quel povero gli era stato riservato.
Ma che fare? Non aveva nient’altro se non la clamide, di cui era rivestito: infatti, aveva già sacrificato tutto il resto per una buona opera analoga. Allora, afferrata la spada che portava alla cintura, tagliò il mantello a metà, ne diede una parte al povero, e indossò nuovamente la parte rimanente. Intanto alcuni dei presenti, trovandolo brutto a vedersi a motivo di quell’abito tranciato, si misero a ridere. Molti altri, tuttavia, più sensati, cominciarono a dolersi profondamente di non avere fatto niente di simile, mentre, avendo più vestiti di lui, avrebbero potuto vestire il povero senza denudarsi a loro volta.
Dunque la notte seguente, mentre dormiva, Martino vide il Cristo, rivestito della parte della sua clamide con cui aveva coperto il povero. Gli fu ordinato di guardare attentamente il Signore, e di riconoscere la veste che aveva dato. Poi, udì Gesù dire con voce chiara alla moltitudine degli angeli che gli stavano intorno: «Martino, che è ancora un catecumeno, mi ha coperto con questa veste».
Il Signore è veramente memore delle sue parole, egli che un tempo aveva detto: Ogni volta che avete fatto queste cose a una sola di queste umilissime creature, l’avete fatta a me (Cf. Mt 25, 40), dichiarò di essere stato vestito nella persona di quel povero e, per confermare la testimonianza di un’opera così buona, Egli si degnò di mostrarsi nello stesso abito che aveva ricevuto il povero.
Questa visione non inorgoglì il beato, ma, riconoscendo la bontà di Dio nella sua opera, poiché aveva diciotto anni, si affrettò a ricevere il battesimo. Tuttavia, convinto dalle preghiere del suo tribuno, che era suo compagno di tenda ed amico, non rinunciò subito al servizio militare. Costui, infatti, una volta compiuto il tempo del suo tribunato, prometteva di rinunciare al mondo.
Martino fu trattenuto da questa attesa e per circa due anni dopo che ebbe ricevuto il battesimo, rimase soldato, ma soltanto di nome.
Nel frattempo i barbari invadevano la Gallia e il Cesare Giuliano, concentrato l’esercito nei pressi della città dei Vangioni (Worms), cominciò a distribuire ai soldati un donativo e, come è consuetudine, i soldati venivano chiamati per nome uno ad uno, finché si giunse a Martino.
Allora in verità, giudicando che quello fosse il momento opportuno per chiedere il congedo - riteneva, infatti, che non avrebbe mantenuto integra la sua libertà, se avesse accettato il donativo senza continuare il servizio - disse a Cesare: «Fino ad ora ho militato ai tuoi ordini: da adesso in poi permettimi di militare al servizio di Dio: prenda il donativo chi è sul punto di combattere per te, io per parte mia sono soldato di Cristo: non mi è lecito combattere».
Udite queste parole, il tiranno si adirò fortemente e affermò che Martino abbandonava il servizio militare non per la sua fede religiosa, ma per paura della battaglia che si sarebbe svolta l'indomani.
Ma Martino non si turbò, anzi, reso più fermo nel suo proponimento dall’intimidazione, con fermezza disse: «Se si attribuisce il mio abbandono del servizio militare alla vigliaccheria e non alla mia fede, ebbene domani mi schiererò disarmato in prima linea e in nome del Signore Gesù, protetto non dallo scudo o dall’elmo, ma dal segno della croce, penetrerò senza paura tra le schiere dei nemici».
Afferratolo, lo si fa gettare in prigione, in modo che potesse tener fede a quanto aveva detto e fosse esposto senza armi ai colpi dei barbari.
Il giorno dopo, i nemici mandarono degli ambasciatori per chiedere la pace, offrendo di consegnare se stessi e i tutti i loro beni. Pertanto, chi potrebbe dubitare che questa fu veramente una vittoria dovuta a quell’uomo beato, al quale fu concesso di non essere mandato inerme in battaglia?
Sebbene il Signore buono e misericordioso avrebbe potuto salvare il suo soldato anche tra le spade e le frecce dei nemici, tuttavia, affinché gli occhi del santo non fossero macchiati anche dallo spettacolo della morte altrui, gli risparmiò la necessità della battaglia.
Infatti Cristo dovette accordare un’altra vittoria in favore del suo soldato, in modo che, sottomessi i nemici senza spargimento di sangue, nessuno morisse.
Lasciato il servizio militare, Martino volle conoscere Sant’Ilario, vescovo della città di Poitiers, la cui fede nelle opere di Dio era allora, per opinione comune, ritenuta ragguardevole. Per qualche tempo restò vicino a lui.
Lo stesso Ilario tentò di imporgli l'ufficio di diacono in modo da legarlo più strettamente a sé e al servizio divino. A più riprese Martino rifiutò, nella convinzione di non esserne degno. Allora il vescovo, uomo di profonda saggezza, comprese che l’unico modo per poterlo costringere era quello di imporgli un ufficio nell’espletamento del quale ci fosse stata una qualche forma di umiliazione. Gli propose pertanto di essere esorcista. Questa volta, Martino non rifiutò di lasciarsi ordinare, nel timore di dare l’impressione di avere disprezzato queste funzioni in quanto troppo modeste.
Poco tempo dopo, nel sonno fu avvertito che doveva, con religiosa premura, visitare la sua terra natale ed i suoi genitori, ancora irretiti nel paganesimo. Partì, dunque, col consenso di Sant’Ilario che, persuaso dalle sue preghiere, tra le lacrime, fece promettere a Martino di ritornare. Si dice che il giovane intraprese questo viaggio con una certa tristezza, nella convinzione che avrebbe sofferto molti mali: tutto ciò fu in effetti confermato dagli avvenimenti successivi.
In primo luogo, mentre attraversava le Alpi, si smarrì e incappò in un gruppo di briganti. Mentre uno di essi, brandendo una scure, stava per vibragli un colpo sulla testa, un altro brigante trattenne il braccio omicida. Con le mani legate dietro la schiena, fu consegnato ad uno dei malviventi, con l’incarico di custodirlo e derubarlo di ogni cosa. L'uomo condusse il prigioniero in un luogo appartato e cominciò col chiedergli chi fosse.
Martino rispose di essere un cristiano. L'altro gli chiese ancora se avesse paura. Allora, in tono fermo e risoluto, Martino dichiarò che mai si era sentito così sicuro, poiché era certo che la misericordia del Signore si sarebbe manifestata soprattutto nelle prove. Tuttavia, aggiunse che, piuttosto, aveva compassione del suo custode il quale, esercitando il brigantaggio, non era degno della misericordia del Cristo.
Poi, addentrandosi nelle spiegazioni sul vangelo, predicava al brigante la parola di Dio. Per dirla in breve, il brigante si convertì, accompagnò Martino e lo rimise sulla buona strada, non senza avergli chiesto di pregare per lui il Signore. In seguito, questo stesso uomo lo si è visto condurre una vita ineccepibile, al punto che da lui stesso io ho udito ciò che ho appena raccontato.
Dunque, Martino proseguì nel suo viaggio. Aveva da poco superato Milano, quando sulla sua strada gli si presentò, sotto forma umana, il diavolo e gli chiese dove andava. Martino gli rispose che andava dove il Signore lo chiamava. Gli disse allora l’altro: «Dovunque andrai, o qualunque cosa farai, il diavolo ti combatterà». Allora Martino, rispondendogli con le parole del Profeta, gli disse: Il Signore è con me, non ho timore; che cosa può farmi l'uomo? (Sal 118[117], 6; Eb 13, 6). Subito il nemico sparì ai suoi occhi.
Come aveva sperato con tutte le sue forze, Martino riuscì a liberare la madre dall'errore del paganesimo, il padre invece continuò a perseverare nel male: grazie al suo esempio, tuttavia, Martino riuscì a salvare numerose persone.
In seguito, poiché l'eresia di Ario si diffondeva nel mondo intero e soprattutto nell'Illirico, egli si trovò a combattere risolutamente quasi da solo contro la fede sospetta dei vescovi, cosa che gli valse molti infami patimenti - infatti, fu anche frustato pubblicamente ed infine costretto ad abbandonare la città. Tornato in Italia, quando apprese che in Gallia la chiesa era sconvolta, anche a motivo della partenza di Sant’Ilario, che la violenza degli eretici aveva costretto all'esilio, si fermò a Milano dove si ritirò in solitudine. Anche qui Assenzio, apostolo e capo degli ariani, lo perseguitò caparbiamente, e, dopo averlo oltraggiato oltre misura, riuscì a farlo cacciare dalla città.
Pertanto, convinto di doversi piegare alle circostanze, Martino si ritirò in un'isola chiamata Gallinaria, in compagnia di un prete dotato di straordinarie virtù. Qui visse per qualche tempo, cibandosi di radici e di erbe. Un giorno mangiò dell'elleboro, una pianta che è - a quanto dicono - velenosa. Ma, quando capì che la potenza del veleno lo minava e che la morte era già vicina, respinse l’incombente pericolo grazie alla preghiera e subito ogni dolore sparì.
Non molto tempo dopo, avendo appreso che l'imperatore aveva autorizzato il ritorno di Sant’Ilario in Gallia, cercò di incontrare il vescovo a Roma, e partì per la capitale.
Ma Ilario aveva già lasciato Roma e Martino ne seguì le tracce. Ilario gli riservò una calorosissima accoglienza e Martino allora decise di stabilirsi in un eremo non lontano da Poitiers. In quello stesso periodo, si unì a lui un catecumeno, che era desideroso di ascoltare gli insegnamenti di un uomo così santo. Non passò molto tempo che il catecumeno si ammalò e cadde in preda a violenti accessi di febbre.
Per caso Martino era allora assente. Tre giorni dopo, quando ritornò, trovò un corpo senza vita: la morte era stata così improvvisa, che l'infelice non aveva potuto essere battezzato prima di lasciare questo mondo. Intorno al corpo, i fratelli si davano da fare tristemente per rendergli gli onori funebri, quando Martino accorse tra le lacrime e i lamenti.
Allora, ispirato dallo Spirito Santo, ordina a tutti i presenti di uscire dalla cella dove si trovava il corpo. Una volta chiusa la porta, si distende sulle membra senza vita del compagno defunto. Con tutte le sue forse si immerge per qualche tempo nella preghiera e sente che, grazie all'intervento dello Spirito, la Potenza di Dio cominciava ad operare. Si solleva un poco, fissa il suo sguardo sul viso del defunto, e, fiducioso, comincia ad aspettare l'effetto della sua preghiera e della misericordia del Signore.
Erano appena trascorse due ore, quando vede il defunto muovere a poco a poco tutte le sue membra e socchiudere gli occhi. Allora, a gran voce, Martino rende grazie al Signore e riempie la cella delle sue grida. Avendolo udito, coloro che stavano dietro la porta subito fanno irruzione. Meraviglioso spettacolo: vedono vivo colui che avevano lasciato morto.
In tal modo, restituito alla vita, il catecumeno ricevette subito il battesimo. Visse ancora parecchi anni e tra noi fu il primo a sperimentare la potenza delle virtù di Martino o a esserne il testimone.
In ogni caso, egli stesso era solito raccontare come, uscito dal suo corpo, era stato condotto al tribunale del Giudice e là, aveva sentito pronunciare contro di lui la funesta sentenza che lo relegava in luoghi oscuri e spregevoli. Allora, due angeli avevano intercesso per lui presso il Giudice, dicendo che era l'uomo per cui Martino pregava. Perciò, questi stessi angeli avevano ricevuto l'ordine di riportarlo sulla terra, lo avevano riconsegnato a Martino e restituito alla sua vita precedente.
Da quel momento il nome del beato Martino risplendette, al punto che, già da tutti considerato santo, fu ritenuto anche potente e proprio degno seguace degli apostoli.
Poco tempo dopo, mentre Martino attraversava i campi di un certo Lupicino, un uomo altolocato, è accolto dalle grida e dai lamenti di una folla in lacrime.
Turbato, Martino si avvicina e chiede il motivo di quei gemiti. Gli dicono che un giovane schiavo della casa si è tolto la vita impiccandosi. Appresa la notizia, egli entra nella stanzetta dove giaceva il corpo del giovane. Dopo aver fatto uscire tutti, si distende sul cadavere e prega con fervore per qualche tempo.
Ben presto, il volto del defunto si anima e i suoi occhi inariditi fissano il viso di Martino; lentamente, con grande sforzo, si solleva e, afferrata la mano del beato, si alza in piedi. Quindi insieme al suo salvatore cammina fino al vestibolo della casa, in presenza di tutta la folla.
Quasi nello stesso tempo, si chiedeva a Martino di esercitare l’episcopato, ma, poiché non era facile strapparlo al suo eremo, un cittadino di Tours, un certo Rusticio, simulata una malattia della moglie, si prostrò alle ginocchia del santo, e riuscì così a farlo uscire fuori dall’eremo.
Lungo la strada erano disposte folle di cittadini che lo accompagnarono fino alla città sotto buona scorta, quasi che fosse prigioniero. Qui si presentò uno spettacolo meraviglioso: si era raccolta una incredibile moltitudine di persone, non solo della città di Tours, ma anche di gente venuta dalle città vicine, per portare il loro suffragio.
In tutti lo stesso desiderio, le stesse aspirazioni, gli stessi sentimenti: «Martino - si diceva - è il più degno dell'episcopato. Felice la chiesa che avrà un tale vescovo!». Tuttavia, alcuni assistenti ed alcuni dei vescovi, che erano stati chiamati per ordinare il futuro pastore, facevano un'empia opposizione, dicendo che Martino era un personaggio spregevole, non degno della dignità episcopale, un uomo dall’aspetto pietoso, mal vestito, mal pettinato.
Ma il popolo, che si dimostrò più saggio, mise in ridicolo la pazzia di questi vescovi che, mentre ritenevano di biasimare un uomo illustre, finivano per farne l’elogio. E in verità essi non poterono fare altro che accettare la volontà del popolo, ispirato dal Signore. Si dice che tra i vescovi presenti, il principale oppositore fu un certo Difensore; si notò anche che egli fu rimproverato da un testo biblico profetico.
Per un caso fortuito, il lettore che doveva leggere quel giorno, non era ancora arrivato poiché era bloccato dalla folla. I ministri del culto erano preoccupati. Mentre si attendeva l'assente, uno degli assistenti, aperto il salterio, cominciò a leggere il primo versetto che gli venne sotto mano. Il salmo era questo: Dalla bocca dei bambini e dei lattanti hai tratto la lode a causa dai tuoi nemici, per ridurre al silenzio l’avversario e il vendicatore (Sal 8, 3). Questa lettura solleva i clamori del popolo, gli oppositori sono confusi.
Si ritenne che il salmo era stato letto per volontà di Dio, affinché Difensore sentisse la condanna della sua opera: dalla bocca dei bambini e dei lattanti si levò la lode del Signore in favore di Martino e, nello stesso tempo, si svelò che Difensore era un nemico e come tale fu annientato.
Assunta la carica episcopale, non è nelle nostre capacità illustrare a sufficienza le sue qualità e la grandezza del suo comportamento. Egli, infatti, restò sempre l'uomo che era stato prima: la sua umiltà di cuore rimase inalterata, identica anche la povertà del suo abbigliamento; e così, ripieno di autorità e di grazia, aveva tutta la dignità di un vescovo senza abbandonare il genere di vita e la virtù di un monaco.
Per qualche tempo, dimorò in una cella attigua alla chiesa, poi, poiché non poteva sopportare il disagio che gli causavano i visitatori, decise di trasferirsi in un monastero distante circa due miglia dalla città.
La località era così appartata e sperduta, che egli non aveva da desiderare la solitudine di un eremo. Infatti, da un lato, era cinto dalle rocce a picco di un'alta montagna, dall'altro lato, la pianura era chiusa da una piccola ansa della Loira. L’unica via d’accesso era costituita da una sola strada, e per giunta molto stretta. Martino occupava una cella fatta di legno come del resto molti dei suoi confratelli: i più avevano scavato la roccia della montagna sovrastante e ne avevano ricavato le loro celle. Circa ottanta erano i discepoli che si uniformavano all'esempio del loro beato maestro.
Nessuno possedeva niente in proprio, tutto era messo in comune. A nessuno era lecito acquistare o vendere alcunché, come sono soliti fare certi monaci. Nell’eremo non si esercitava nessuna arte, eccetto quello del copista, ma questo lavoro era riservato ai più giovani, i più anziani invece trascorrevano il loro tempo in preghiera.
Raramente uscivano dalla propria cella, eccetto quando si riunivano nel luogo dove avveniva la preghiera in comune. Quando non digiunavano, mangiavano tutti quanti insieme; non si conosceva il vino, salvo quando qualcuno era ammalato.
La maggior parte erano vestiti di pelle di cammello; là, era considerato peccato indossare abiti delicati. Questo rigore era tanto più ammirevole per il fatto che molti monaci erano, a quanto si diceva, dei nobili, allevati in maniera assai ben diversa, si erano assoggettati a questa vita fatta di umiltà e di privazioni. Parecchi di essi, in seguito, li abbiamo visti vescovi.
Difatti, quale città o quale chiesa non avrebbe desiderato un vescovo proveniente dal monastero di Martino?
E’ giunto ora il momento di iniziare a parlare degli altri miracoli che Martino compì una volta diventato vescovo. C'era, non lontano da Tours e vicino al monastero, un luogo che si considerava a torto come sacro, come se vi fossero stati sepolti dei martiri, al punto che i vescovi predecessori di Martino vi avevano eretto anche un altare. Martino, poiché non voleva prestare fede in maniera temeraria a racconti pieni di incertezze, interrogava gli anziani della chiesa, preti o chierici che fossero, e da essi desiderava avere ragguagli sul nome del martire e sul tempo del martirio: provava, diceva, grandi scrupoli, perché nulla di certo né di concordante era stato trasmesso dalla tradizione.
Perciò, per qualche tempo si tenne lontano da quel luogo, dato che non voleva né vietare il culto che vi si teneva, perché esitava a biasimarlo, né incoraggiare con la sua autorità la superstizione popolare. Un giorno, dunque, presi con sé alcuni dei confratelli, si recò nel luogo in questione.
Quindi, stando in piedi sul sepolcro, chiese al Signore di fargli conoscere il nome o i meriti di colui che vi era sepolto. Allora, voltatosi a sinistra, vide drizzarsi accanto a lui uno spettro orrendo e sinistro. Subito Martino gli comandò di rivelare il suo nome e la sua natura. L'altro disse il suo nome e confessò la sua vita delittuosa: era stato un brigante, per i suoi misfatti aveva subito la pena capitale, ed era onorato indebitamente dal volgo: non aveva niente in comune coi martiri dal momento che essi erano in cielo nella gloria, mentre subiva il suo castigo nell'inferno.
Cosa strana, i presenti sentivano la sua voce senza vedere nessuno. Allora Martino raccontò ciò che aveva visto; quindi ordinò che fosse rimosso l'altare che era stato innalzato in quel luogo e in tal modo distolse il popolo da questa superstizione.
Poco tempo dopo, avvenne che Martino, mentre era in strada, per caso si imbatté in un corteo funebre: un pagano era condotto al sepolcro secondo i riti superstiziosi allora in uso. Da lontano il santo vide avvicinarsi una folla di persone; non sapendo di che si trattasse, si fermò. Poiché c'era una distanza di circa cinquecento passi, non era facile distinguere i particolari.
Tuttavia, poiché vedeva una folla di contadini che, al soffio del vento, facevano svolazzare lenzuola di lino sul corpo, Martino credette che si stessero svolgendo i riti profani di un sacrificio: era, infatti, consuetudine dei contadini gallici, nella loro miserabile follia, portare a spasso attraverso i campi immagini di demoni ricoperti di veli bianchi.
Dunque, sollevata la mano verso quelli che sopraggiungevano, Martino fece il segno della croce e ordinò alla folla di fermarsi e deporre a terra il carico. Allora, in verità, avresti potuto vedere un spettacolo stupefacente: quegli infelici, innanzitutto, si irrigidirono come rocce; poi, quando con grandi sforzi tentavano di andare avanti, non essendo capaci di avanzare, giravano su se stessi piroettando in maniera ridicola. Infine, vinti, depositarono il corpo che trasportavano. Attoniti, guardandosi gli uni gli altri, si chiedevano in silenzio ciò che fosse capitato loro.
Tuttavia, quando il santo capì che si trattava di un corteo funebre e non di un sacrificio, allora alzata nuovamente la mano, restituì loro la libertà di andarsene e di portare via il corpo. Così, quando egli volle, li costrinse a fermarsi e, quando gli sembrò opportuno, permise loro di andarsene.
Un'altra volta, in un villaggio, dopo avere fatto distruggere un tempio assai antico, Martino voleva fare abbattere anche un pino che era nelle vicinanze del santuario; allora, il sacerdote di quel luogo e la folla dei pagani si opposero.
Quegli stessi uomini che, per volontà del Signore, erano stati quieti mentre veniva demolito il tempio, non volevano permettere che si tagliasse un albero. Martino tentò di spiegare loro che non c'era niente di divino in un tronco di albero; avrebbero fatto meglio piuttosto a servire il Dio di cui egli stesso era servitore; bisognava tagliare quell’albero, poiché era stato dedicato ad un demonio.
Allora, uno dei pagani, più ardito degli altri, disse: «Se hai fiducia in questo Dio che dici di adorare, noi stessi taglieremo quest’albero a condizione che tu ti metta sotto l’albero mentre cade. Se il tuo Signore è con te, come tu pretendi, sarai salvo».
Allora il santo, confidando nel Signore, coraggiosamente promise che avrebbe fatto quanto gli si chiedeva. Tutta la folla dei pagani acconsentì a tale condizione: essi accettarono con rassegnazione la perdita dell’albero poiché essa era compensata dal fatto che la caduta avrebbe schiacciato il nemico del loro culto.
Il pino era tutto inclinato da un lato, al punto che non v’era dubbio che l’albero, una volta colpito, sarebbe caduto da quella parte. Martino, dopo essere stato legato, fu posto nel punto scelto dai contadini, dove non v’era dubbio che l'albero sarebbe caduto.
Fatto ciò, dunque, i pagani cominciarono a tagliare il pino con grande gioia ed esultanza, alla presenza di un gran numero di persone che guardavano da lontano stupite. A poco a poco si vide il pino vacillare e minacciare rovina con la sua caduta.
A distanza, stavano i monaci pallidi in volto e spaventati dal pericolo ormai imminente: avevano perduto ogni speranza e fiducia, e da un momento all’altro attendevano la morte di Martino.
Ma egli, fiducioso nel Signore, aspettava intrepido. Quando il pino, crollando, provocò un enorme fragore, solo a quel punto, mentre l’albero stava precipitando ed era sul punto di schiacciarlo, il santo oppose la sua mano tesa nel segno della croce. Allora in verità il pino, sospinto indietro - si sarebbe detto - come da un turbine, si abbatte dal lato opposto, al punto che per poco non schiacciò i contadini che si credevano al sicuro.
Subito si levò un grande clamore fino al cielo, e i pagani si stupirono per il miracolo, i monaci piansero di gioia: gli uni e gli altri erano accomunati nel celebrare il nome di Cristo e fu subito molto evidente che quel giorno la salvezza era giunta in quella contrada; tra quella grande moltitudine di pagani, non ci fu quasi nessuno che non chiedesse l'imposizione delle mani per credere al Signore Gesù ed abbandonare l'errore dell'empietà. E veramente, prima di Martino, pochissime persone, anzi quasi nessuno, in quelle regioni aveva accolto il nome di Cristo. Da quel momento, grazie ai miracoli e all'esempio di Martino, il nome di Gesù si diffuse talmente che adesso tutta la contrada è piena di numerose chiese e monasteri. Dovunque, infatti, si distrussero dei templi, subito nello stesso luogo si costruirono chiese o monasteri.
Sempre in quello stesso periodo, operando un miracolo analogo, Martino mostrò il suo potere soprannaturale. In un paese, era stato dato alle fiamme un antichissimo e assai celebre santuario. Sospinte dal vento, le fiamme stavano per raggiungere una casa che si trovava nelle vicinanze.
Appena Martino se ne avvide, in fretta e furia salì sul tetto della casa e andò incontro alle fiamme. Si poté vedere, allora, uno spettacolo meraviglioso: il fuoco veniva soffocato dalla violenza del vento, ed era come se avvenisse una sorta di lotta tra i due elementi. Così, grazie al potere di Martino, il fuoco non poté esercitare le sue devastazioni che nei limiti fissati dal santo.
In un altro villaggio, il cui nome è Leprosum, Martino un giorno voleva parimenti distruggere un tempio, arricchito dalla superstizione pagana, ma incontrò la resistenza di una moltitudine di pagani, i quali lo respinsero facendo ricorso anche alla violenza.
Appunto per questo, il santo si ritirò in un luogo vicino e per tre giorni, ricoperto di un cilicio e di cenere, digiunando sempre e pregando, invocò il Signore: poiché la mano dell'uomo non aveva potuto abbattere quel tempio, soltanto la Potenza divina poteva distruggerlo.
All'improvviso, gli si presentarono due angeli, armati di lance e di scudi, come se appartenessero alla milizia celeste. Gli dissero che erano mandati dal Signore per mettere in fuga la moltitudine dei contadini, portare soccorso a Martino, e impedire che qualcuno si opponesse alla distruzione del tempio: il vescovo non aveva dunque che da tornare, per completare devotamente l'opera cominciata.
Martino, dunque, ritornò nel villaggio e, sotto gli occhi di una folla di pagani che stavolta stava tranquilla, fece abbattere fin dalle fondamenta l'empio edificio e ridurre in polvere tutti gli altari e le statue.
A quella vista, i contadini compresero che la Potenza divina li aveva paralizzati mediante lo stupore e lo spavento, per impedire loro di opporre resistenza al vescovo. Quasi tutti credettero nel Signore Gesù, proclamando apertamente e confessando ad alta voce che si dovevano abbandonare degli idoli che non potevano difendere né se stessi, né gli altri e che si doveva adorare il Dio di Martino.
Riferirò adesso quanto accadde ancora nella regione degli Edui, dove, mentre Martino faceva distruggere un tempio, una moltitudine inferocita di contadini pagani si gettò su di lui. Uno degli aggressori, più ardito degli altri, sguainata la spada, tentò di colpirlo. Il vescovo, gettato via il mantello, offrì all'omicida il suo collo nudo.
Il pagano non esitò a colpirlo, ma avendo sollevato troppo in alto la mano, cadde all'indietro. Spaventato, come pervaso da una paura divina, implorò il suo perdono.
Analogo a questo fu un altro miracolo. Mentre Martino distruggeva degli idoli, qualcuno cercò di colpirlo con un coltello: nel momento stesso in cui stava per vibrare il colpo, il ferro gli scappò dalle mani e sparì.
Ma spesso, quando i contadini si opponevano alla distruzione dei loro templi, Martino mediante la sua santa predicazione placava talmente gli animi di questi pagani che presto, manifestatasi loro la luce della verità, distruggevano essi stessi i loro templi.
Martino possedeva in sommo grado il dono di guarire, tanto che non c’era malato che si avvicinasse a lui che non recuperasse immediatamente la salute: è quanto si ricava dal seguente esempio.
A Treviri, una ragazza era affetta da una terribile malattia, la paralisi, al punto che già da molto tempo il suo corpo non era in grado di svolgere nessuna dalle funzioni necessarie per la vita umana: morta già in tutte le sue membra, in lei palpitava appena un soffio di vita.
I suoi parenti, sprofondati nella tristezza, le stavano intorno, non aspettando altro che la sua morte, quando improvvisamente fu annunciato in città l'arrivo di Martino. Appena il padre della ragazza ne fu informato, corse a perdifiato per chiedere la guarigione della figlia.
Per caso Martino era già entrato in chiesa. Qui, sotto gli occhi del popolo e alla presenza di molti altri vescovi, tra i singhiozzi, il vecchio abbracciò le sue ginocchia e disse: «Mia figlia sta morendo di una terribile malattia e, cosa che è più crudele della morte, non ha in sé che un soffio di vita, poiché nella carne è già morta. Ti chiedo di andarla a trovare e di benedirla, perché sono sicuro che tu puoi ridarle la salute».
Confuso da queste parole, Martino, tentò di sottrarsi, dicendo che quanto l’uomo chiedeva non era in suo potere e il vecchio sragionava: egli, Martino, non era degno che il Signore si servisse di lui per manifestare la sua Potenza. Ma il padre, piangendo e supplicandolo di visitare la ragazza morente, insisteva ancora di più.
Infine, spinto dalle pressioni dei vescovi che gli stavano intorno, Martino si recò nella casa della giovane. Una grande folla aspettava davanti alla porta, per vedere ciò che il servo di Dio stava per compiere.
Innanzitutto, ricorrendo a quelle armi che gli erano familiari nelle cose di questo genere, prostratosi al suolo, si mise a pregare. Poi, guardando la malata, chiese che gli fosse portato dell'olio. Dopo averlo benedetto, versò quel liquido santificato nella bocca della ragazza, che all’istante recuperò la parola.
Poi, uno dopo l'altro, toccò tutte le membra che, a poco a poco, cominciarono a rianimarsi, fino al momento in cui, salda sui suoi piedi, alla presenza del popolo, la ragazza si alzò.
Nello stesso periodo, uno schiavo di un certo Tetradio, personaggio proconsolare, era posseduto da un demonio che lo torturava con i suoi molesti assalti. Pregato, dunque, di imporgli le mani, Martino chiese che l’uomo fosse condotto alla sua presenza, ma non si poté trarre fuori lo spirito dalla cameretta in cui era, poiché si precipitava rabbiosamente su coloro che gli si avvicinavano, e li mordeva coi denti.
Allora Tetradio si gettò alle ginocchia del santo, e lo supplicò di recarsi di persona nella casa dove era l'indemoniato. Martino in verità disse di non potersi recare nella casa di un profano e di un pagano: Tetradio, infatti, a quel tempo, era invischiato ancora nell’errore del paganesimo. L’uomo allora promise che, se si fosse scacciato il demonio dal corpo dello schiavo, si sarebbe convertito al cristianesimo.
Allora Martino impose le mani allo schiavo e lo liberò dallo spirito immondo. A quella vista, Tetradio credette nel Signore Gesù, divenne subito catecumeno, e non molto tempo dopo fu battezzato. Da allora venerò sempre Martino come l'artefice della sua salvezza e gli manifestò un meraviglioso affetto.
Sempre nella stessa epoca e nella stessa città, entrando nella casa di un padre di famiglia, Martino si fermò proprio sulla soglia, dicendo di vedere nell'atrio un orribile demonio. Gli ordinò di andarsene, ma il demonio si gettò nel corpo del padre di famiglia, che si attardava dentro la casa. Subito, lo sventurato posseduto si mise a mordere con furore e a lacerare tutti coloro che incontrava. Tutta la casa ne fu sconvolta, il panico si impossessò degli schiavi e tutto il popolo si diede alla fuga. Martino si pose davanti al folle e subito gli ordinò di non muoversi. 6. Poiché l'altro faceva stridere i denti e con la bocca spalancata minacciava di mordere, Martino gli piantò le sue dita nella bocca e disse: «Se hai un qualche potere, divorali».
Allora l'invasato, come se avesse avuto in gola un fuoco incandescente, staccava sempre i denti per evitare di toccare le dita del santo. Il demonio da un lato si vedeva costretto a fuggire dal corpo che aveva invaso da questo castigo e da queste torture, ma dall’altro, non poteva uscire attraverso la bocca: allora, lasciando dietro di sé delle tracce immonde, fu evacuato da un flusso del ventre.
Nel frattempo, mentre nella città di Treviri si era sparsa all'improvviso l’allarmante notizia che i barbari erano in agitazione e stavano per attaccare la città, Martino si fece condurre innanzi un indemoniato: subito gli intimò di dichiarare se tale notizia era vera.
Allora, l'indemoniato confessò che insieme ad altri dieci demoni aveva sparso questa diceria tra la popolazione, nella speranza che, almeno per questo timore, si potesse allontanare Martino dalla città: del resto, i barbari pensavano tutt’altro fuorché a fare irruzione. In tal modo, grazie a questa confessione dello spirito immondo, confessione fatta nel mezzo della chiesa, la città fu liberata dalla paura e dal turbamento che la avevano sconvolta.
Un giorno, recatosi a Parigi, mentre varcava la porta della città accompagnato da una folla immensa, Martino vide un lebbroso dall’aspetto penoso di cui tutti avevano orrore: il santo allora lo baciò, lo benedisse e subito il lebbroso fu guarito.
Il giorno seguente, l’uomo, la cui pelle era nitida e senza macchie, si recò in chiesa per rendere grazie per l’avvenuta guarigione. Non si deve neppure dimenticare che spesso le frange, tolte dal vestito o dal cilicio di Martino, operarono miracoli su degli ammalati.
Infatti, legate alle dita o messe al collo dei pazienti, queste frange hanno frequentemente messo in fuga le malattie.
Un giorno un ex-prefetto, Arborio, uomo pietoso e retto, vedendo che sua figlia era consumata da una violenta febbre quartana, prese una lettera di Martino, che per caso gli era stata portata, e la pose sul petto della giovane nel bel mezzo di un accesso di febbre: subito la febbre sparì.
Questo miracolo produsse in Arborio una tale impressione che, seduta stante, votò la vergine a Dio e gli dedicò per sempre la sua verginità. Si recò allora da Martino e gli presentò la ragazza, testimone vivente della potenza taumaturgica del santo, che era stata guarita da lui, sebbene assente. Volle, inoltre, che Martino in persona, e nessun’altro, imponesse alla ragazza l'abito verginale e la consacrasse.
Paolino, un grande uomo che in seguito doveva diventare di esempio per tutti, soffriva dolorosamente ad un occhio, la cui pupilla era già ricoperta da una spessa ombra. Martino, toccatogli l'occhio con una spugna, lo liberò interamente dal dolore, e gli restituì la buona salute di un tempo.
Un giorno, Martino fece una brutta caduta; scivolando sui ripidi gradini di una scala, precipitò dal piano superiore e si procurò molte ferite. Tormentato da insopportabili dolori, stette disteso esanime nella sua cella. Durante la notte, gli parve di vedere un angelo lavare le sue piaghe ed applicare sui lividi del suo corpo un unguento salutare. In tal modo, l'indomani, il santo stava nuovamente così bene che avresti detto che non aveva sofferto alcun male.
Ma sarebbe troppo lungo passare in rassegna ad uno ad uno tutti i miracoli da lui compiuti. Bastino questi di cui abbiamo parlato, anche se sono pochi tra i tanti che operò. Essi sono abbastanza: se abbiamo raccontato i più notevoli lo abbiamo fatto per non togliere nulla alla verità, e rischiare di stancare se ne avessimo raccontati troppi.
A questo punto mi sembra sia opportuno parlare anche di eventi più piccoli. Considerando la situazione del nostro tempo, dove tutto è immorale e corrotto, è un fatto quasi straordinario, che la fermezza di un vescovo non abbia ceduto alla tentazione di adulare un sovrano.
Dunque, alla corte dell'imperatore Massimo, uomo di una natura rozza, inorgoglito dalla sua vittoria nelle guerre civili, si erano riuniti numerosi vescovi provenienti da diverse regioni dell'impero. Tutti si facevano notare per le loro vergognose adulazioni nei confronti del principe, e per la loro indegna vigliaccheria che degradava la loro dignità di vescovi al ruolo di clienti imperiali. Soltanto Martino manteneva intatta la dignità dell'autorità apostolica.
Malgrado si dovesse intercedere presso l'imperatore in favore di alcuni imputati, il santo anziché pregare, comandò. Invitato ripetutamente al suo tavolo, rifiutò, dichiarando di non poter sedere alla stessa mensa di un uomo che aveva scacciato due imperatori, togliendo ad uno il regno, all'altro la vita.
Rispondendogli, Massimo disse di non aver preso volontariamente l'impero, ma che i suoi soldati l'avevano costretto per Volontà di Dio. Poi aveva dovuto difendere con le armi questo potere che gli era stato imposto: del resto, non gli sembrava che la volontà di Dio gli fosse ostile dato che aveva ottenuto la vittoria in circostanze così incredibili, e nessuno dei suoi avversari era morto, se non sul campo di battaglia. Vinto infine dalle ragioni o dalle preghiere, Martino si sedette alla mensa dell'imperatore arrecandogli una straordinaria gioia per aver ottenuto ciò che desiderava.
I commensali, invitati là come se fosse un giorno di festa, erano grandi e illustri personaggi: Evodio, prefetto e nello stesso tempo console, uomo di cui mai nessuno fu più giusto, e due conti assai autorevoli, il fratello e lo zio paterno dell'imperatore. Tra questi due personaggi aveva preso posto il presbitero di Martino, il quale, dal canto suo, si era seduto su una modesta seggiola, accanto all'imperatore.
Verso metà del pasto, come è consuetudine, un servo presentò all'imperatore una coppa. Questi ordinò di darla piuttosto al santo vescovo, pensando e sperando di riceverla poi dalle sue mani.
Ma Martino, dopo che ebbe finito di bere, porse la coppa al suo presbitero, ovviamente ritenendo che nessuno era più degno di bere immediatamente dopo lui, e credendo di non avere il diritto di preferire ad un presbitero o l'imperatore in persona o i suoi parenti.
Questa condotta suscitò nell'imperatore ed in tutti i presenti una tale ammirazione, che essi approvarono l’operato del vescovo che li aveva in tal modo disprezzati. Per tutto il palazzo si raccontò con entusiasmo che, durante il pranzo dell’impe-ratore, Martino aveva fatto ciò che nei banchetti dei governatori subalterni nessun vescovo mai aveva fatto.
Allo stesso Massimo, Martino predisse molto tempo prima dell'avvenimento, ciò che gli sarebbe accaduto se si fosse recato in Italia, dove desiderava andare per fare guerra all'imperatore Valentiniano: Massimo avrebbe vinto il primo scontro, ma sarebbe morto poco tempo dopo.
E’ ciò che abbiamo visto accadere. Difatti, all'arrivo di Massimo, Valentiniano fu messo in fuga; ma, circa un anno più tardi, avendo ricostituito le sue forze, Valentiniano fece prigioniero Massimo, lo rinchiuse nel carcere di Aquileia, quindi lo fece uccidere.
E’ certo che Martino spesso vide degli angeli i quali conversavano con lui. Quanto al diavolo, era distintamente visibile agli occhi del vescovo, sia che celasse la sua presenza, sia che assumesse le diverse forme di cui di solito si serve la sua astuta malignità: qualunque forma assumesse, Martino lo riconosceva.
Dato che il diavolo sapeva di non potergli sfuggire, spesso lo affliggeva con le sue insolenze, perché non poteva ingannarlo per le sue insidie. Un giorno, tenendo in una mano un corno di bue insanguinato, il diavolo, strepitando fortemente, fece irruzione nella sua cella. Gli mostrò la sua mano destra rossa di sangue e, lieto del crimine che aveva appena commesso, gli disse: «Ebbene, Martino, che fine ha fatto il tuo potere? Ho appena ucciso uno dei tuoi».
Allora il vescovo convocò i fratelli e rivelò loro quanto il diavolo gli aveva detto. Ordinò loro di correre di cella in cella, per vedere a chi fosse capitata quella disgrazia. Riferirono che non mancava nessuno dei monaci, ma che un contadino, assunto per trasportare su un carro la legna, era andato nella foresta. Il vescovo allora ordinò che alcuni monaci gli andassero incontro.
Fu così che non lontano dal monastero fu trovato il carrettiere in fin di vita. Tuttavia, mentre esalava l’ultimo respiro, indica ai fraticelli la causa della sua ferita mortale: mentre stringeva le cinghie dell’attacco dei buoi, che si erano allentate, un bue aveva scosso la testa e gli aveva inferto un colpo di corno nel basso ventre. Poco dopo, l'infelice rese l'anima. Spetta a voi considerare perché il Signore ha dato questo potere al diavolo.
Ciò che era stupefacente in Martino, è che riferì ai confratelli non soltanto ciò che abbiamo raccontato in precedenza, ma altre cose analoghe che vedeva molto tempo prima che avvenissero, o apprendeva mediante le rivelazioni.
Spesso il diavolo, poiché tentava mediante mille artifici malefici di prendersi gioco del santo uomo, gli si presentava sotto le forme più diverse. Gli si mostrava, infatti, trasformato talora sotto le sembianze di Giove, abitualmente sotto quelle di Mercurio, spesso anche sotto le fattezze di Venere o di Minerva: da lui, senza spaventarsi mai, Martino si proteggeva col segno della croce e con l’aiuto della preghiera.
Spesso si sentivano strepiti: era il clamore provocato dalle invettive che schiere di demoni sfrontati lanciavano contro di lui; ma il santo vescovo, sapendo che tutto ciò era falso e sterile, non era turbato da quelle accuse.
Anche alcuni dei confratelli asserivano di aver sentito il demonio lanciare insulti oltraggiosi nei confronti di Martino: chiedeva il diavolo perché il vescovo aveva ricevuto nel suo monastero, dopo la loro conversione, dei confratelli che un tempo, a motivo di diverse colpe, avevano perso la grazia del battesimo, ed egli esponeva le malefatte di ciascuno.
Martino, tenendo testa al diavolo, rispondeva con fermezza che le colpe del passato erano cancellate dal ritorno ad una vita migliore e che coloro che avevano smesso di peccare dovevano essere assolti dai loro peccati dalla Misericordia del Signore. Al contrario, il diavolo sosteneva che non c'era perdono per i peccatori che, una volta caduti nel peccato, non potevano sperare più nella clemenza del Signore. Si dice che allora Martino esclamò: «Se tu stesso, o sciagurato, malgrado tutto smettessi di perseguitare gli uomini, se oggi, che è vicino il giorno del giudizio, ti pentissi delle tue malefatte, ebbene, ho tanta fiducia nel Signore Gesù Cristo, che ti prometterei misericordia». Quale santa presunzione sulla clemenza del Signore! Così facendo Martino, sebbene non poté assicurare la sua autorità, mostrò almeno la sua carità.
Poiché parliamo del diavolo e dei suoi artifici, non sembra fuori luogo, sebbene esuli dalla mia trattazione, riferire un altro fatto, dato che anch’esso appartiene ai miracoli di Martino e sarà giusto conservare il ricordo di questo fatto meraviglioso, come esempio, per mettere in guardia contro fatti analoghi che, in avvenire, potrebbero avvenire ancora da qualche parte.
Un certo Chiaro, giovane appartenente all’alta nobiltà, che in seguito divenne presbitero, e che una santa morte ha fatto diventare ora beato, aveva abbandonato tutto per seguire Martino. In poco tempo, si elevò fino alla perfezione più splendente della fede e di tutte le virtù.
Pertanto, non lontano dal monastero del vescovo, egli aveva costruito per sé una capanna e molti confratelli vivevano insieme a lui. Un giovane, di nome Anatolio, spacciandosi per monaco votato all'umiltà ed all'innocenza, andò a trovare Chiaro e per qualche tempo abitò insieme agli altri confratelli.
Poi, col passare del tempo, Anatolio si mise a dire che gli angeli dialogavano frequentemente con lui. Inizialmente nessuno gli prestò fede, poi, adducendo certe prove, riuscì a convincere molti confratelli. Infine, giunse al punto di proclamare che tra lui e Dio vi era un continuo scambio di messaggi e a questo punto voleva che lo si considerasse come un profeta.
Ciò nondimeno, Chiaro restava sempre incredulo e Anatolio lo minacciava della collera del Signore e di un castigo immediato, perché non voleva credere a un santo.
Poi, un giorno, si dice che Anatolio esclamò: «Ebbene, questa notte il Signore mi darà dal cielo una veste bianca, rivestito della quale, verrò in mezzo a voi. Questo sarà per voi il segno che la Potenza di Dio risiede in me, poiché avrò ricevuto in dono una veste di Dio».
Allora in verità grande fu l'attesa di tutti in seguito a questa dichiarazione. Dunque, verso mezzanotte, echeggiò un sordo rumore e un calpestio di gente che saltava sembrò scuotere tutto il monastero. Nella cella dove era il giovane, si vedevano balenare senza tregua dei lampi e si sentiva il rumore di passi e il mormorio confuso di una moltitudine di voci.
Poi, tutto ripiombò nel silenzio. Allora Anatolio uscì fuori dalla cella e chiamò uno dei confratelli, di nome Sabazio, e gli mostrò la tunica di cui era rivestito. Stupefatto, Sabazio chiamò tutti gli altri. Accorse anche Chiaro: alla luce delle lampade, tutti esaminarono con cura la veste. Era fatta di una stoffa molto morbida, di un biancore splendente, con fasce di porpora scintillante, ma, tuttavia, non si poteva distinguere né la natura né la materia del tessuto. Ciò nondimeno a vedersi e a toccarsi, sembrava che si trattasse di una buona stoffa. Infine, Chiaro invitò i fratelli a pregare con fervore, per chiedere a Dio di mostrare loro che cosa ciò fosse più chiaramente. Pertanto trascorsero il resto della notte nella recita di inni e di salmi.
Allo spuntare del giorno, preso Anatolio per mano, Chiaro voleva condurlo a forza verso Martino, nella certezza che il vescovo non poteva essere ingannato da un artificio del diavolo.
Allora l'infelice cominciò a resistere e a protestare, dicendo che gli era vietato di mostrarsi a Martino. E poiché, malgrado la sua resistenza, lo si costringeva ad andare, all’improvviso tra le mani di coloro che lo trascinavano la veste sparì. Chi, dunque, può dubitare che il potere di Martino era così grande, che il diavolo, davanti alla prospettiva di porre sotto gli occhi di Martino i suoi allettamenti ingannevoli, non poteva dissimularli più a lungo o nasconderli.
All’incirca nello stesso periodo, si venne a sapere che, in Spagna, un giovane, mediante presunti segni, era riuscito a procurarsi un enorme prestigio: costui si montò talmente la testa che giunse a spacciarsi per il profeta Elia.
Poiché molte persone gli avevano prestato fede con estrema leggerezza, arrivò al punto di dire di essere il Cristo. I suoi inganni erano talmente credibili, che un vescovo, di nome Rufo, lo adorò come Dio: a motivo di ciò, costui più tardi – ne siamo stati testimoni - fu deposto dall'episcopato.
Molti monaci ci hanno raccontato anche che, nella stessa epoca, in Oriente, un individuo si spacciava per Giovanni. Da ciò possiamo dedurre che, quando si manifestano falsi profeti di questo genere, è vicino l'avvento dell'Anticristo, e che il mistero dell'iniquità opera in essi.
Ma, a quanto pare, dunque, non si deve omettere di raccontare, con quale astuzia, nella stessa epoca, il diavolo tentò Martino. Un giorno, per ingannarlo più facilmente mediante il bagliore della luminosità usurpata, egli gli apparve preceduto e circondato da una luce scintillante, rivestito di una veste reale, coronato da un diadema di pietre preziose e di oro, i piedi calzati di sandali d’oro, il viso sereno, l'aria gioiosa, tanto che neppure lontanamente somigliava al diavolo. Tale si presentò al vescovo che pregava nella sua cella.
A vederlo, inizialmente, Martino rimase come inebetito. A lungo tutti e due stettero in profondo silenzio. Allora, per primo, il diavolo disse: «Martino, riconosci quello che vedi: io sono il Cristo. Sul punto di ritornare sulla terra, ho voluto innanzitutto rivelarmi a te».
Martino continuava a tacere e non rispondeva niente alle parole del diavolo. Costui, allora, osò ripetere la sua sfrontata dichiarazione: «Ebbene, Martino, perché esiti a credere, poiché vedi? Io sono il Cristo».
Allora il vescovo, illuminato da una rivelazione dello Spirito, comprendendo che si trattava del diavolo e non del Signore, disse: «Il Signore Gesù non ha annunciato che sarebbe venuto vestito di porpora, né con un diadema scintillante. Quanto a me, non crederò alla venuta del Cristo, se non avrà l'aspetto e le sembianze del giorno della sua passione, e se non porterà le stimmate della croce».
A queste parole, l'altro subito svanì come il fumo, riempiendo la cella di fetido odore, indizio indubitabile che era il diavolo. Questo racconto, che ho appena riferito, lo ho appreso proprio dalla bocca di Martino: nessuno, dunque, pensi che si tratta di una favola.
Infatti, poiché avevo da lungo tempo sentito parlare della fede, della vita e del potere di Martino, e ardevo dal desiderio di conoscerlo, intrapresi con piacere una lungo viaggio per andarlo a vedere. Inoltre, nel mio cuore desideravo ardentemente scrivere la sua vita. Per questo motivo, dunque, ho assunto informazioni, e le ho avute parte da lui stesso, per quanto lo si poteva interrogare, parte da coloro che lo avevano visto all'opera da vicino o che sapevano.
A quell’epoca mi ricevette con un'umiltà e una benevolenza incredibili, si compiacque molto e si rallegrò nel Signore della stima che nutrivo per lui, stima così grande che avevo intrapreso un così lungo viaggio per vederlo.
Peccatore come io sono - oso appena confessarlo, - si degnò di invitarmi alla sua santa tavola e versò egli stesso l'acqua sulle mie mani; la sera, mi lavò egli stesso i piedi. Dal canto mio, non ebbi il coraggio di resistere o contrastare la sua volontà: ero schiacciato talmente dalla sua autorità, che avrei considerato come un sacrilegio non lasciarlo fare.
Nelle sue conversazioni, mi parlò solamente della necessità di fuggire le seduzioni del mondo e gli affanni della terra, per seguire in tutta libertà e senza impedimenti il Signore Gesù. Come esempio più splendente dei nostri tempi, ci indicava Paolino da Nola, personaggio illustre che abbiamo in precedenza ricordato. Paolino, infatti, aveva sbarazzatosi il fardello delle enormi ricchezze che possedeva, si era posto alla sequela del Cristo e, quasi unico nel nostro tempo, aveva messo interamente in pratica i precetti evangelici.
Ecco, era solito esclamare Martino, colui che bisognava seguire, che bisognava imitare e riteneva felice la generazione presente per avere ricevuto una tale lezione di fede e di virtù. Secondo il precetto del Signore, si era visto un uomo ricco, un grande proprietario, vendere tutto e dare tutto ai poveri: ciò che sembrava impossibile a farsi, egli l’aveva reso possibile mediante il suo esempio.
E nelle parole e nella conversazione di Martino, quale gravità! Quale dignità! Come era intelligente, quanto era valente, quanto era pronto e chiaro nel risolvere le questione relative all’interpretazione delle Scritture!
Poiché so che su questo punto vi sono molto increduli - dal momento che ho visto persone non credermi, quando io stesso raccontavo ciò, ebbene, chiamo a testimone Gesù, la nostra speranza comune, che io, dalla bocca di nessuno, non ho mai sentito delle parole così piene di scienza, di eloquenza così generosa e così pura.
Probabilmente, in confronto alle virtù di Martino, la mia è una lode assai piccola; ma la cosa stupefacente è questa, che ad un uomo digiuno di studi letterari non mancò neppure questo merito.
Ma ormai il mio libro richiede la conclusione e occorre porre fine al racconto, non che io abbia esaurito tutto ciò che ci sarebbe a dire su Martino, ma perché io, come i poeti senza arte che alla fine del loro lavoro sono incapaci di dargli una decente conclusione, vinto dalla grandezza dell’argomento, ne rimango schiacciato.
Quanto egli ha fatto, bene o male ho potuto esporlo con le mie parole, ma la sua vita interiore, la sua condotta di ogni giorno, lo slancio della sua anima sempre tesa verso il cielo, mai - dico la verità - mai nessun discorso sarà in grado di esprimerli per intero. Impossibile descrivere la sua perseveranza e il suo equilibrio nell'asti-nenza e nei digiuni, la forza dimostrata nelle veglie e nelle preghiere, le notti, come del resto i giorni, dedicati alla preghiera, tutti gli istanti riempiti dall'opera di Dio, senza indulgere al riposo o agli affari, ma neppure al cibo o al sonno, se non quanto lo esigevano le necessità della natura.
In verità, neppure se Omero in persona, come si è soliti dire, uscisse dagli inferni, avrebbe le capacità di raccontare tutto ciò: tutti i grandi meriti in Martino sono ancora più grandi di quanto le parole non siano in grado di esprimere. Mai Martino lasciò trascorrere un'ora, un momento, senza dedicarsi alla preghiera o immergersi nella lettura; ed ancora, anche mentre leggeva o faceva per caso qualcos’altro, non smetteva mai di pregare Dio.
Nulla di straordinario in ciò: come accade ai fabbri ferrai che, anche quando si riposano nel mezzo del loro lavoro, per un certo sollievo dalla fatica, colpiscono ancora la loro incudine, così Martino, anche quando sembrava che facesse dell’altro, continuava a pregare.
Oh, uomo veramente santo, in cui non fu mai neppure l’ombra di malizia! Non giudicò mai nessuno, non condannò nessuno, a nessuno rese male per male. Contro tutte le offese, si era armato di una pazienza straordinaria, al punto che, pur essendo egli il vescovo, poteva essere oltraggiato impunemente anche dagli ultimi dei chierici. Mai, per questo motivo, li rimosse, per quanto dipendeva da lui, né dalla loro funzione, né dal su affetto.
Mai nessuno vide Martino adirato, né turbato, o afflitto, o in atto di ridere. Egli fu sempre uguale a se stesso, il viso splendente di una gioia per così dire celeste: sembrava estraneo alla natura umana.
Sulle sue labbra null’altro v’era che il nome di Cristo; nel suo cuore, nient’altro che amore, pace e misericordia. Spesso era solito piangere anche sui peccati di coloro che si mostravano suoi detrattori e che, mentre egli si teneva in disparte tranquillo, lo attaccavano con la loro lingua avvelenata e coi loro denti di vipera.
In verità, ne abbiamo visto all'opera alcuni che invidiavano la sua virtù e la nobiltà della sua vita: odiavano in lui ciò che non vedevano in se stessi e non erano in grado di imitare. E per di più - sacrilegio orribile e deplorevole - si diceva che tutti i suoi persecutori, benché estremamente pochi, non furono quasi altri che vescovi.
E’ inutile rivelare il loro nome, sebbene la maggior parte di essi abbaiano ancora intorno a noi: basterà che, se qualcuno di essi leggerà questo libro e si riconoscerà, ne arrossisca. Se, infatti, si adira, confesserà che è a lui che si riferiscono le mie parole, mentre forse io avevo pensato ad altri.
Del resto, se costoro sono di tale specie, non escludo la possibilità che accomuneranno anche me nel loro odio nei confronti di quell’uomo straordinario.
Ho pienamente fiducia che questo opuscolo avrà buona accoglienza presso tutti i veri fedeli. Ma, se qualcuno leggerà queste pagine con incredulità, peccherà a sua volta.
Quanto a me, ho consapevolezza di essere stato spinto dall’autenticità dei fatti e dall'amore di Cristo a scrivere questo libro; ho la consapevolezza di avere esposto dei fatti accertati e di avere detto la verità: Dio, lo spero vivamente, riserva una ricompensa, non a chiunque avrà letto questo racconto, ma a chiunque avrà creduto.
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